La fede è la certezza di ciò che si spera e la dimostrazione di ciò che non si vede. Non credo che ci sia un modo migliore per descrivere la natura e la mission delle associazioni di advocacy: fiducia, perché fede significa anche fiducia, che le cose possano cambiare, anche se non ancora viste, e speranza come certezza che questo avverrà. C’è una possibilità, c’è una meta e la speranza non è solo un auspicio ma la consapevolezza che tramite la propria azione e quella di tante persone simili a noi possiamo fare la differenza.
di TERESA PETRANGOLINI, Direttore Patient Advocacy Lab
Stiamo parlando di uomini e donne che per vari motivi – colpiti da una malattia, madri, padri, figli, figlie, amici e amiche di persone malate, o per semplice anelito di giustizia – si trovano ad animare le migliaia di associazioni locali, regionali e nazionali che ogni giorno si impegnano per promuovere e tutelare i diritti di chi vive quotidianamente una patologia cronica, rara, oncologica.
Ma quali diritti? Il diritto ad accedere alle cure in modo equo e ovunque si viva, ad una buona qualità delle terapie, alla tempestività degli interventi, ad una diagnosi corretta e precoce, al rispetto della riservatezza e alla personalizzazione dei percorsi. Cose che ognuno di noi desidera quando ha un problema di salute e si rivolge ai servizi sanitari, ma che non hanno nulla di ovvio e di scontato ma ci evocano storie di vita vissuta, dove accanto a professionalità e grandi progressi nella cura, ci si scontra con ostacoli, dinieghi, attese, indifferenza e inerzia.
Esiste un principio costituzionale che fa da cornice a questo mondo ed è quello dell’art. 118 ultimo comma della costituzione italiana, la sussidiarietà orizzontale, che indica il dovere da parte delle istituzioni di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini a perseguire l’interesse generale, di cui il diritto alla salute è un aspetto fondamentale. Una ricchezza, una risorsa, a volte scomoda perché portatrice di esigenze non riconosciute e non ascoltate – le cosiddette unmet needs –, ma creatrici di nuovo dinamismo per mettere in modo processi più avanzati di presa in carico delle persone e della necessaria spinta verso modalità di cura e di assistenza più umane.
La nascita del Servizio Sanitario Nazionale è stato il contesto in cui questo movimento variegato ha potuto svilupparsi, contribuendo a dare le gambe ai principi appena elencati. Da una ricerca sulla storia delle associazioni di advocacy condotta dal Patient Advocacy Lab di ALTEMS, emergono fatti interessanti. È infatti da allora che si registra una crescita progressiva ed incrementale del mondo delle associazioni, sempre di più, senza sbalzi, ma come un processo inarrestabile di protagonismo civico. I motivi possono essere tanti, le cronicità emergenti, la scarsità di risorse, l’anzianità e le malattie, ma anche la crescita civile, l’informazione, l’aumento di soggettività delle persone. E che cosa hanno dato queste organizzazioni al Ssn? Tante cose, dalla buone leggi (si pensi a quella sul diritto a non soffrire, la legge 38 o alla recente Legge quadro sulle malattie rare o ancora ai tanti provvedimenti nel campo dell’oncologia) a cambiamenti profondi nei comportamenti di istituzioni e professionisti della salute (Carte dei servizi, nuovi codici deontologici, pratiche cliniche più sicure, strumenti e metodi di partecipazione per i pazienti, ecc.) con tre caratteristiche che accomunano tutte le organizzazioni:
Un altro tratto distintivo di questo mondo è la forte leadership femminile: sempre da una ricerca PAL, il 68, 4% dei presidenti delle associazioni è costituita da donne; qui non parliamo di impiego femminile nel non profit dove la presenza femminile è molto forte, parliamo di leadership, di persone che si assumono responsabilità, che organizzano il loro mondo, che si impegnano per raccogliere fondi, che dialogano e discutono con le istituzioni, i clinici, la politica. Non sempre affette da malattie, non sempre caregiver, ma anche persone che hanno fatto di questo settore un campo di impegno e di battaglia per costruire una società più umana e democratica. I tratti di questa leadership, che in realtà accomuna anche nelle sue caratteristiche anche la componente maschile, sono comuni: capacità di empatia, lavoro in team, primato e valore dell’esperienza, visione olistica e multiforme che guarda a tutti gli aspetti della vita.
Non voglio fare un quadro idilliaco del mondo dell’advocacy, perché i problemi sono tanti, non è facile avere quelle competenze necessarie per essere ascoltati ed interloquire, avere forze sufficienti per agire, poter garantire un ricambio generazionale, avere mezzi sufficienti, sapere progettare, pianificare, comunicare. Questo insieme di fattori, che sono di forza e di debolezza, fanno si che le persone si muovano, si incontrino, creino socialità e impegno comune, cerchino soluzioni ai problemi. Tutto ciò crea quello che il nostro Presidente della Repubblica Sergio Mattarella chiama “Capitale sociale” vale a dire una ricchezza intangibile che tiene in piedi, unisce e fa crescere la società.
A volte mi chiedo dove possa risiedere la speranza, per non restare un concetto vuoto o un auspicio generico. Sono convinta che essa risieda nelle persone e nelle loro storie, sono loro il segno di una speranza che si costruisce giorno per giorno. Per questo motivo parleranno oggi, assieme ad alcuni importanti esperti ed interlocutori, rappresentanti di associazioni che porteranno le loro esperienze, le loro riflessioni, i traguardi raggiunti e quelli da raggiungere, nel campo dell’oncologia, di patologie croniche importanti come il diabete e le malattie renali, delle malattie mentali e del loro impatto sulle famiglie, delle patologie neurologiche e neurodegenerative, come la SLA e il tremore essenziale. Credo che ogni soggetto che ascolterà queste storie debba domandarsi se può fare qualcosa per dare loro il peso e il supporto che meritano. Noi come Università Cattolica abbiamo deciso 8 anni fa di dedicare una specifica attività, il già citato Laboratorio di Patient Advocacy, a sostegno dell’attivismo civico nel campo della salute, per formarle, incrementarne le competenze, aprire spazi di dialogo con le istituzioni, a costruire comunità di pratiche tra loro per diventare sempre più forti ed incisive. Continueremo a farlo perché i risultati raggiunti ci danno ragione: ne valeva proprio la pena!
Vorrei chiudere con il ringraziamento particolare alla Conferenza Episcopale con il suo ufficio per la pastorale della salute che ha deciso di dare corpo a questo supporto, promuovendo l’evento di oggi dedicato proprio all’advocacy ed al legame tra essa e il grande tema del Giubileo, “Pellegrini di speranza”. Un’ ottima idea, un meraviglioso auspicio, un riconoscimento non scontato che incoraggia tutti coloro che di questa speranza ne hanno fatto una forza e un inno alla vita.