Riportiamo qui di seguito il contributo di Filippo Sensi, parlamentare, già portavoce di due Presidenti del Consiglio e animatore del seguitissimo blog Nomfup. Filippo ha partecipato il 12 novembre scorso all’ultimo incontro del COP-PAL, la comunità di pratiche che raccoglie gli ex alunni del Master in Patient Advocacy Management, per parlare della comunicazione istituzionale.
I legami e le istituzioni
Come si costruiscono legami? Perché a volte abbiamo l’impressione che di legami siamo costituiti, come se li ereditassimo, fossimo già dentro al loro gioco, al loro dominio. Come fossimo già da sempre legati, senza la possibilità autentica di costruirne di altri, di nuovi, di altrettanto forti.
I legami sono il contrario della appartenenza, sono un rischio e una invenzione.
Le istituzioni sono legami, ed è forse per questo che ci sembrano sempre estranee, altre da noi, ed è bene che ci sembrino così. Costruire legami significa uscire dalla nostra zona di conforto per arrischiare un confronto che germoglia, porta frutto e, soprattutto, resta. Oltre noi. Dopo di noi. Nonostante noi.
Le istituzioni sono legami che ci sopravvivono proprio perché ci portano fuori di noi. Capire questa dinamica significa comprendere come funzionano i legami, come si muovono, come ci stringono lasciandoci e come noi, lasciandoli, li rendiamo più stretti. La vitalità dei legami, e delle istituzioni, sta nel loro stare, restare, resisterci, abbandonarci, costringerci a disdirci. Letteralmente.
Il lavoro di questa costruzione, la sua tecnica, ha un carattere sperimentale, che non può essere trasmesso come fosse una eredità, un portato, ma una dissipazione, uno spreco, piuttosto. Le istituzioni sono legami e spetta alla politica e alla sua capacità comunicativa - di dirsi e di darsi - lo sforzo per rendere la loro durata, il loro resto, un compito non concluso, una missione impossibile, una macchina celibe.
Comunicare la politica è molto diverso da comunicare una istituzione. La politica comunica se stessa, l’istituzione comunica noi. Non nel senso di una autosufficienza della politica, ma in quello della sua autonomia. Il noi comunicato dalle istituzioni è il punto di arrivo di un processo di trasformazione e di alienazione, di espropriazione che non consente al noi costitutivo di riconoscersi appieno nel noi costituito, ricostituito. Da qui un senso di alterità, di distanza, che le istituzioni devono saper custodire e che la politica prova a confondere, a fraintendere, a disturbare, come una interferenza. La politica entra ed esce dalle istituzioni per restare se stessa. Di questo passaggio le istituzioni sembrano non portare memoria, paiono indifferenti, quando invece è esattamente la differenza la cifra specifica della istituzione.
Costruire legami, dunque. Porte di accesso, chiavi nascoste, strumenti per uscirne vivi, luoghi di confronto, piazze e panchine. Questa urbanizzazione è la missione che i cittadini, uti singuli e nella loro dimensione associativa, dunque politica, sono chiamati a fallire, perché le istituzioni per essere tali non devono poter consentire un riconoscimento finale, una conclusione, un inveramento, una fine, perfino nella forma dell’happy ending. La fine delle istituzioni, la loro efficacia, la loro efficienza
non deve essere realizzata, ma solo possibile, come ogni katechon. Se l’istituzione si fa reale manca il suo obiettivo che non è, come potrebbe sembrare, il passato, la chiusura del cerchio, ma il futuro. La durata di ciò che resta. L’istituzione è sempre sopravvissuta, superstite, l’esatto contrario dello zombie che è morto e divora il vivo. L’istituzione non può morire, nonostante la violenza della politica che la attraversa, che prova ad usarla, quand’anche fosse per l’elevato scopo della salus rei publicae. Per questo è l’istituzione a cambiare la politica, e non vicecersa, del suo passaggio dentro l’istituzione la politica porta traccia e memoria, trasformandosi. Il contrario di quello che siamo portati a pensare. Ma questo perché nello stare dell’istituzione c’è la sua vitalità, la sua promessa, il suo errare.