Il federalismo è un bene o un male? La sanità funzionerebbe meglio o peggio se ci fosse più federalismo? Sono anni che si discute di questo tema, oggi diventato quanto mai attuale con l’avanzare della proposta di regionalismo differenziato da parte di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, in attuazione di quanto previsto dal Titolo V della Costituzione. In particolare, infatti, l’art. 116 consente ulteriori forme di autonomia, che possono essere attribuite ad altre Regioni (rispetto a quelle a Statuto speciale), con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dell’articolo 119, che disciplina l’autonomia finanziaria. In Italia da anni vige il federalismo soprattutto in sanità, ma con questa riforma alle 4 Regioni a Statuto speciale (Valle d’Aosta, Trentino – Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Sicilia) se ne aggiungerebbero 3 a trattamento differenziato. C’è chi dice che sarebbe un bene perché i cittadini di quei territori avrebbero un controllo molto più ravvicinato delle tasse pagate, si premierebbero le Regioni meglio amministrate e si renderebbe più snella la macchina della sanità, favorendo innovazioni organizzative.
È giusto però sollevare alcuni sostanziali dubbi, soprattutto considerando che, a risorse invariate, c’è chi si impoverisce (il Fondo nazionale a sostegno di tutti) e chi si arricchisce (le Regioni “benestanti”). Ma visto con gli occhi dei cittadini quali sono le questioni in ballo? A mio avviso il problema numero uno non è avere più centralismo o più federalismo, ma cambiare punto di vista e agenda delle priorità. Oggi ciò che non è garantita è l’equità nell’accesso alle cure e non si risolve accentuando ancora di più le differenze. Ci vorrebbe invece un federalismo (che è ormai un processo irreversibile) dal volto umano, in cui il Governo centrale garantisce, controlla e mette ordine e le Regioni governano, tenendo conto delle esigenze dei propri cittadini.
Dall’ultimo Rapporto dell’Osservatorio sul federalismo in sanità di Cittadinanzattiva dell’ottobre scorso emergono in modo molto chiaro le “inequità”. Su tempi di attesa, gestione delle cronicità, accesso ai farmaci innovativi, coperture vaccinali e screening oncologici si registrano disuguaglianze sempre più nette fra le varie aree del Paese. E non sempre al Nord va meglio che al Sud. Per giungere alla conclusione che “le proposte di autonomia differenziata finiranno per differenziare ancora di più l’esigibilità dei diritti dei pazienti. A essere fortemente compresse saranno le funzioni del livello centrale, di indirizzo, coordinamento e controllo delle politiche sanitarie e dell’erogazione dei servizi. L’unica vera forma di controllo che continuerà a essere nelle mani del livello centrale sarà quella sui conti delle Regioni”. Questo potrebbe essere uno scenario un po’ troppo apocalittico, ma ciò che è indubbio è che servono azioni non per assecondare, ma per contrastare le disuguaglianze. Dall’attuazione dei nuovi Lea (Livelli essenziali di assistenza) a un piano di investimenti per le malattie croniche, da una seria politica sui servizi territoriali a una politica di reclutamento del personale che premi il merito e le nuove generazioni.
Da questo punto di vista avere associazioni dei cittadini impegnate in sanità, competenti, appassionate e forti rappresenta una grande risorsa e una grande sfida per avere interlocutori attenti, con il polso della situazione, poco inclini a slogan di maniera. Chi è affetto da una malattia rara o soffre di artrite reumatoide non si chiede se serve più federalismo, anzi tende, a ragione o a torto, ad averne paura perché lo vive come diseguaglianza. Se si impara invece a dialogare sui problemi, usando le competenze, le esperienze, le buone pratiche, ci si riappropria della questione centrale che è appunto: quali politiche, quali innovazioni, quali assetti organizzativi sono più consoni a garantire ai cittadini equità d’accesso alle cure?
di Teresa Petrangolini